Un altro prezioso contributo della dott.ssa Morganti, psicologa-psicoterapeuta, grazie al quale ci descrive cosa porta a cercare nel cibo una consolazione, un premio o un modo per disconnetterci dai “malesseri del corpo”, descrivendo quella che viene definita FAME EMOTIVA. Vi anticipo che seguiranno altri articoli su questo argomento. Se avete domande o curiosità, scriveteci.
Seguire un piano alimentare adatto a noi è sicuramente una scelta salutare per il nostro equilibrio psico-fisico. Gli effetti benefici sono molteplici, dal semplice punto di vista estetico a quello ben più centrale della prevenzione di numerosi disturbi fisici e/o malattie. Nonostante i numerosi aspetti positivi però non tutti riescono ad intraprenderlo o a mantenerlo nel tempo. Come mai? Le risposte sono da ricercare in diversi ambiti alcuni dei quali sono: la storia personale e familiare, la nostra “storia” con il cibo, la capacità o meno di regolazione emotiva, la fase di vita che stiamo attraversando. Il comportamento alimentare è infatti ben più complesso di quanto si pensi e strettamente legato a questi aspetti e all’emotività di ognuno. Sicuramente molti di voi avranno sentito parlare di “fame nervosa” (Emotional Eating).
Ma prima di focalizzarci sullo “sgarro” e su ciò che lo attiva è importante fare un passo indietro. Il cibo ha due componenti: quella nutrizionale e quella affettiva che si intrecciano già nei primi giorni di vita tra la mamma e il bambino, è dunque attraverso l’allattamento che la mente del bambino inizia a svilupparsi.
Sleddens e colleghi nel 2010 studiarono la relazione tra stili di alimentazione dei genitori e i comportamenti alimentari dei bambini rilevando che l’uso del cibo come ricompensa si correlava positivamente all’emotional eating. Capita anche che il genitore possa ricorrere al cibo per spegnere un’emotività troppo intensa del bambino (per es. dare della cioccolata per farlo smettere di piangere). Ciò produce un’alterazione della percezione dei segnali interni di fame e sazietà rinforzando la sensibilità verso quelli esterni (per es. mangio non per fame ma perché mi è successo qualcosa o mi sento in un certo modo). Stile alimentare e capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni sono dunque strettamente interdipendenti.
Ma che cos’è l’emotional eating? Con questo termine si indica la tendenza a ricorrere al cibo per fronteggiare momenti di stress e di disagio emotivo. Erroneamente si tende ad associare la fame nervosa solamente all’ansia ma diverse sono le emozioni, i pensieri e le situazioni attivanti e centrale è saperli riconoscere e distinguere per poterli gestire. Stati ansiosi (stimolo interno) e situazioni stressanti (stimolo esterno) possono sicuramente aumentare la probabilità di ricorrere al cibo come compensazione o consolazione, ma quali sono le altre emozioni?
- TRISTEZZA: emozione spiacevole ma, come tutte le emozioni, estremamente importante. Ci permette di elaborare una perdita o una delusione o ci segnala cosa o chi potremmo perdere ma è anche un grande collante sociale. Se vedo un mio amico triste sono propenso a stargli vicino e a fare qualcosa per farlo sentire meglio rendendo più solido il nostro legame. La tristezza ci fa sentire un vuoto che possiamo “riempire” con il cibo, facendoci prediligere cibi “attivanti” con molti zuccheri.
- SOLITUDINE: non è un’emozione ma una condizione che ci fa percepire come poco interessanti per gli altri e/o di poco valore. Di certo si può associare alla tristezza e farci cadere in sgarri alimentari.
- RABBIA: emozione spiacevole ma anch’essa utile per difenderci dalle ingiustizie. Se non regolata e riconosciuta può indurci alla voracità come sfogo.
- COLPA: emozione complessa che ci permette di rimediare se danneggiamo o feriamo qualcuno. In genere viene descritta con le parole “avere un peso sullo stomaco”, in effetti molto spesso in terapia emergono contenuti di colpa, anche di un passato lontano, dietro ad una distorta relazione con il cibo. Non sempre essa viene provata perché’ si è commesso oggettivamente un danno a qualcuno. In diversi casi la persona, un tempo bambino, è stata accusata più o meno direttamente di qualcosa (ad es. di essere sbagliata, incapace, diversa, non abbastanza…) e mangiare diventa un autopunizione da infliggersi. Così il peso emotivo può convertirsi in peso fisico.
Anche traumi ed esperienze di vita se non correttamente elaborati hanno conseguenze sulla nostra salute psico-fisica e possono alterare il nostro rapporto con il cibo.
Ma non vanno attenzionati solamente gli antecedenti, spesso c’è da considerare lo stato post- sgarro. È capitato a diversi pazienti che ho seguito che ciò che rinforzava tale comportamento o lo rendeva più probabile fosse lo stato di “stordimento” a seguire, in quanto ci “sconnette” dal corpo e quindi dal malessere sottostante.
Questa molteplicità di considerazioni fanno ben capire che è fondamentale una buona intelligenza emotiva, ossia la capacità di cogliere, identificare e gestire le proprie emozioni e di un supporto psicologico per conoscere nonché migliorare la nostra relazione con il cibo.